Scola: postcristianesimo? No, se mettiamo al centro l’uomo

La denuncia del Cardinale nel suo ultimo volume edito da Marsilio: «La scelta di trasformare in legge ogni diritto individualisticamente affermato non sembra via sicura verso il bene comune, soprattutto per chi ha meno voce». Dalla crisi alle domande sul senso della vita.
Pubblichiamo uno stralcio dell’ultimo libro del cardinale Scola «Postcristianesimo? Il malessere e le speranze dell’Occidente», edito da Marsilio.
Quando parlo di crisi della rappresentanza politica mi riferisco anzitutto ad alcuni fenomeni ormai comuni a molte società europee, in parte evidenziati e in parte accentuati dalla crisi economica.
La politica oggi tende a vivere solo di sondaggi d’opinione, piegandosi a un modello culturale secondo cui ai desideri di emancipazione, espressività e successo deve seguire il conseguimento di gratificazioni immediate, secondo la logica del carpe diem che è figlia di sentimenti ambivalenti di onnipotenza e insicurezza.
Viene così pesantemente compromesso l’inscindibile rapporto tra diritti e doveri che deve essere alla base delle buone leggi: lo si vede in modo clamoroso nelle questioni legate al diritto alla vita e agli affetti. Infatti, a un’esasperata percezione dei diritti individuali – ogni inclinazione è tendenzialmente considerata un diritto – spesso non corrisponde il riconoscimento dei doveri correlati – altrettanto essenziale per la vita in comune – e, in questo modo, si pretende che le leggi proteggano, sanzionino quando non favoriscano il diritto alla realizzazione di ogni genere di desiderio soggettivo. «Al concetto di diritto umano, che ha di per sé valenza universale, si sostituisce l’idea di diritto individualista» (Francesco, Discorso al Consiglio d’Europa, 25 novembre 2014).
Questo spiega il paradosso per cui una conclamata domanda di libertà finisce per impigliarsi in un reticolato sempre più fitto di leggi. La scelta di trasformare in legge ogni diritto individualisticamente affermato non sembra via sicura verso il bene comune, soprattutto per chi ha meno voce.
Si comprende, in questo contesto, l’emarginazione dei corpi intermedi, favorita anche dall’esercizio attuale della politica. Corpi intermedi che, a loro volta, non di rado rischiano di ridursi a corporazioni di difesa di interessi particolari. Originariamente invece i corpi intermedi erano ambiti sociali in cui la tensione del popolo al bene comune fungeva da collante per rispondere a interessi legittimi. Basti pensare a quanto poco è ancora sostenuta la famiglia – il corpo intermedio per eccellenza di ogni società – o alla crisi dei partiti politici, sentiti spesso come estranei, quando non nemici del bene comune. Non solo i corpi intermedi, ma anche le fasce più deboli rischiano di essere meri strumenti di una politica sull’onda dell’emozione, incapace di vedute di ampio respiro. Mi riferisco in particolare agli anziani, ai giovani e agli immigrati, risorse inascoltate della nostra società, al massimo percepite come problema da gestire nell’immediato, quando invece dovrebbero essere coinvolte nell’elaborazione politica del presente e del futuro.
La politica, nazionale ed europea, ha bisogno di una rinnovata responsabilità creativa.
La crisi comunicativa: il babelismo
Il travaglio della nostra società è accelerato da una sorta di crisi comunicativa che Jacques Maritain definiva come babélisme: «La voce che ciascuno proferisce non è che un puro rumore per i suoi compagni di viaggio». La mancanza di una visione unitaria e condivisa dell’uomo, come codice di una comune intesa, rende problematica la pluralità delle visioni culturali, in quel processo clamorosamente in atto che ho chiamato meticciato di civiltà.
L’aumento e l’accelerazione dei flussi migratori hanno decisamente modificato l’assetto del mondo: i “diversi” che noi siamo si trovano – volenti o nolenti – a dover progettare una convivenza, senza poter più contare sui grandi racconti del passato, su quelle potenti narrazioni che suggerivano d’emblée le coordinate del bene comune. Considerata l’atmosfera in cui siamo immersi, si capisce quanto sia divenuto difficile comunicare tra persone e soggetti associati che hanno concezioni del mondo così diverse e contrastanti.
La crisi comunicativa non colpisce solo la dimensione sociale nelle relazioni tra diversi, ma investe l’uomo nella sua capacità di riflessione su di sé, di descrizione di sé. Lo si vede bene nei nostri stili di vita: viviamo frammentati in una miriade di informazioni, conoscenze e saperi a tal punto che, quando affrontiamo un aspetto della nostra esistenza, è come se di tutti gli altri non avessimo più memoria, quasi non esistessero. Viviamo “a compartimenti stagni”, “scheggiati”, facendo riferimento a logiche autonome fra loro e di fatto non comunicanti, perché non integrate in un sistema di “ideali” (valori) unitario e rispettoso di tutti.
Siamo così attaccati, quasi ossessivamente, a ogni particolare. E per questo ci appoggiamo all’enorme memoria quantitativa dei nuovi media, ma a ben vedere non è questa la vera memoria capace di stabilire nessi e relazioni tra passato e futuro, dal sé all’altro da sé.
Il travaglio presente investe l’uomo nel suo intimo (la coscienza di sé), nella sua espressione (linguaggio) e nel suo desiderio (rapporto sociale). Sembra essere svanita, come un sogno, la possibilità di un’ipotesi esistenziale che ci renda capaci di interpretare unitariamente la realtà che siamo e che viviamo.
Nel travaglio con spirito di «ad-ventura»
Dobbiamo rassegnarci a questo stato di cose o e invece possibile trovare strade percorribili che ci permettano di superarlo? Intanto, per quanto l’uomo possa distrarsi nell’immediato, il travaglio avanza ineluttabile nel suo corso. Ma, sotto sotto, l’umano reclama la sua parte. Perché il corso del travaglio, che avanza così drammaticamente da venir scambiato con il decorso della morte, può anche essere l’incoercibile inizio della nuova vita.
È in momenti di travaglio come questo che esplode il problema del senso della vita, ben sintetizzabile nella radicale domanda di Cristo: «Che giova infatti all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?» (Mc 8,36). Si pone cioè il problema del senso della vita nella sua forma più nobile, quella del dono: a chi sto donando la mia vita? Ripeto spesso ai giovani: «Attenti, c’è un test del fatto che la vita è dono: se tu non la doni, il tempo te la ruba». E siamo di nuovo lì, al senso del tempo che si fa breve e di un’esistenza che chiede di essere strappata dalla pura sopravvivenza per essere portata alla vita vera, quella accolta e donata. (…)
La crisi politica può essere vinta solo da interlocutori capaci di riaprire e dilatare il desiderio dell’uomo. Se il cristianesimo non sa interloquire adeguatamente e teme di mettersi “alla scuola” delle domande dell’uomo per accoglierle e spalancarle, è destinato a essere un postcristianesimo, una sorta di anestetico troppo debole e ormai inutile per affrontare il travaglio.
Credo che ogni uomo oggi abbia il desiderio, come Giobbe, di poter tra-guardare l’attuale travaglio con spirito di «ad-ventura», rivolto al futuro. Occorre soltanto l’audacia di porre con radicalità la domanda esistenziale fondamentale, considerando ogni uomo come un interlocutore adeguato, capace di ascolto e di comprensione.

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