Covid il punto in cui siamo. Oltre l’impasse tra rigoristi e negazionisti

Non si scioglie purtroppo la polarizzazione del dibattito pubblico sull’attuale fase della pandemia Covid-19 attorno al binomio ‘allerta sanitaria’ e ‘allarmismo ingiustificato’, ovvero ‘rigorismo precauzionista’ e ‘negazionismo ottimista’. Un binomio astratto rispetto alla realtà clinica ed epidemiologica e illusoriamente accattivante sul piano della comunicazione di massa. E una polarizzazione così marcata ingenera perplessità o scetticismo anche tra i cittadini più attenti e pensosi. Per superare questa impasse, che (apparentemente) mostra una contraddizione tra le affermazioni di diversi scienziati e medici e le prese di posizione di alcuni ‘tecnici’ delle emergenze sanitarie, servono elementi di epistemologia e metodologia della medicina che spesso sfuggono ai non addetti ai lavori.

Il concetto di gravità di un malattia (disease severity, in inglese) fa riferimento al suo impatto sulla vita personale, relazionale e sociale dei pazienti colpiti, e comprende (ma non solo) la intensità e durata della disabilità e della sofferenza da causa fisica o psichica, la probabilità di co-morbosità, la mortalità e la letalità.

Da quando la medicina, oltre a prendersi cura della persona del malato, ha guadagnato una effettiva capacità diagnostica e terapeutica (la cosiddetta ‘medicina moderna’) la gravità di una malattia non è più una proprietà patologica legata esclusivamente alla ‘natura del morbo’ e alla ‘resistenza intrinseca del corpo’, ma dipende anche (e sempre più) dalla corretta e tempestiva diagnosi e da una efficace terapia (sia essa eziologica, patogenetica o solo sintomatica). Così, la gravità di una malattia – come una qualunque infezione respiratoria o gastrointestinale, un tumore, una cardiopatia, un disordine metabolico o altro – è legata non solo dalla sua causa e dalle status antropologico e sanitario del paziente (età, sesso, costituzione fisica, patologie pregresse o in corso), ma dalla capacità dei medici di riconoscerla con sicurezza e rapidamente (diagnosi) e di trattarla in modo appropriato (terapia).

Questa capacità del sistema sanitario non è uguale in ogni tempo e luogo. Un trauma da incidente domestico o lavorativo normalmente lieve se trattato in tempi brevi dagli specialisti, può risultare grave quando il dipartimento di urgenza del più vicino ospedale è in crisi per la saturazione di strutture e la carenza di personale specializzato disponibile in occasione di un evento catastrofico, un terremoto o un conflitto armato. Una enterite infettiva o una infezione delle vie respiratorie risulta molto più grave (in termini di debilitazione, morbosità e mortalità) se insorge in un abitante di un villaggio africano rispetto a quando colpisce un cittadino europeo.

Ha ragione chi afferma che ormai, in Italia, il Covid-19 ‘ha perso forza’ e una seconda o terza ‘ondata epidemica’ non sarà più grave come la prima? Sì, se intende dire che la capacità dell’infezione da coronavirus di mettere a grave rischio la salute e la vita della popolazione si è ridotta in quanto siamo più preparati per curarla e prevenire, nella maggior parte dei casi, l’insorgenza di complicanze anche fatali, e perché i cittadini sono più attenti ai primi sintomi di Covid-19 e i medici riescono a diagnosticarli precocemente, isolare gli infetti e trattarli appropriatamente. Non vi sono, invece, ancora dati virologici, epidemiologici e clinici sufficienti per affermare con certezza che il coronavirus che ha causato la pandemia sia divenuto ‘meno pericoloso’ di natura sua, ossia a motivo di mutazioni (che pure è documentato stiano avvenendo, ma sono da considerare ‘neutrali’ sino a prova contraria).

Chi oggi è infettato non è colpito da un ‘virus più innocuo’, ma dallo stesso tipo di virus (salvo qualche possibile variazione di nucleotide nel suo genoma): se non si riconosceranno presto gli eventuali sintomi e non sarà curato subito con appropriatezza, questo paziente rischia una forma grave di Covid-19 non meno che se si fosse ammalato la scorsa primavera. Chi ridimensiona la gravità attuale del rischio pandemia in Italia, in realtà non minimizza la pericolosità del virus, ma sottolinea la crescente efficacia ed efficienza della Sanità italiana nell’affrontare questa malattia e la maggior consapevolezza dei cittadini nel sospettarne i primi sintomi. Coloro che enfatizzano il persistente pericolo non vogliono allarmare ingiustificatamente i cittadini, ma ricordano che chi fosse colpito dalla sindrome, nonostante le misure profilattiche in atto nel Paese, è affetto da una malattia che può avere conseguenze rilevanti per la salute e la vita propria e di coloro che eventualmente contagia.

Roberto Colombo – E’ sacerdote della diocesi ambrosiana dal 1989. Professore incaricato di Bioetica speciale presso la Pontificia Università Lateranense (Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, Città del Vaticano) e di Antropologia e bioetica presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose (Milano). Attualmente è responsabile del Laboratorio di Biologia Molecolare e Genetica Umana per lo Studio delle Malattie Ereditarie dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

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