Così la lettera del “Buon Samaritano”. Curare sempre, abbandonare mai

La Lettera della Congregazione per la dottrina della fede Samaritanus bonus, approvata da papa Francesco, che tratta i temi antropologici, etici e giuridici di “fine vita”, è un documento molto rilevante per la completezza delle questioni affrontate, la ricchezza delle fonti, la robustezza delle argomentazioni e l’attualità dei problemi discussi. Si colloca nel solco della tradizione delle risposte, dichiarazioni e istruzioni della Congregazione che hanno preceduto, accompagnato e seguito i discorsi dei Papi e l’enciclica Evangelium vitae sul valore e l’inviolabilità della vita umana. Di questa Lettera si sentiva da più parti la necessità: è stata sollecitata per aiutare pastori e laici (professionisti sanitari, ammalati, parenti, educatori e uomini politici) verso una autorevole chiarificazione e un discernimento del bene e del male di fronte a decisioni e azioni, procedure cliniche, controversie, giudizi etici e sociali, leggi e sentenze che si sono moltiplicati attorno al letto di degenza, talora contro la vita di neonati, bambini, ammalati, disabili, anziani e morenti.

Il cuore della Lettera è la netta riaffermazione della fondamentale distinzione medico-infermieristica, clinica, antropologica ed etica tra “curare” e “guarire”, tra “prendersi cura” della vita integrale di un ammalato e “fare terapia” per sconfiggere o contrastare la malattia di cui soffre. La “cura”, esemplificata evangelicamente dall’azione del buon samaritano (cfr. Lc 10, 29-37), è il primo e fondamentale, irrinunciabile atto del medico e dell’infermiere, che precede, accompagna e sostituisce (quando ogni altra azione clinica è inappropriata) gli atti di diagnosi, terapia e riabilitazione che non in tutti i casi portano alla “guarigione”. Prendersi cura sempre della vita del malato e del disabile, cercare di guarirlo quando ciò è possibile, se i mezzi terapeutici (distinguibili formalmente e materialmente da quelli curativi) sono proporzionati nei loro effetti benefici e non causano sofferenze troppo gravose.

L’incremento dei mezzi terapeutici a disposizione, e la concentrazione del pensiero e dell’azione di medici e parenti su procedure e protocolli terapeutici di “successo”, hanno progressivamente oscurato clinicamente ed eticamente la “cura degli inguaribili” (non tutte le malattie sono guaribili, ma tutti i malati sono curabili). La conseguenza, denunciata dalla Lettera, è che si è creata una nuova categoria di malati e disabili: gli «incurabili», quelli per cui non vale darsi da fare per assisterli in quanto segnati da una vita considerata «indegna» perché priva di salute e «qualità». Dalla giusta rinuncia alle terapie futili, che non giovano alla salute e configurano un inaccettabile «accanimento terapeutico», si è progressivamente passati – quasi impercettibilmente nella coscienza umana e professionale – all’abbandono della cura essenziale, quella che sostiene le funzioni fisiologiche indispensabili per la vita di un ammalato e di un sano, e allevia il dolore, favorisce le relazioni familiari e sociali ancora possibili e, per i credenti, sostiene l’animo nel suo elevarsi a Dio.

Con lo sguardo a situazioni e decisioni che hanno drammaticamente travolto la vita di piccoli ammalati e adulti gravemente disabili, e a protocolli clinici e leggi che istituzionalizzano e legalizzano simili procedure, la Lettera dichiara che «l’eutanasia è un crimine contro la vita umana», un atto «intrinsecamente malvagio in qualsiasi occasione e circostanza». Sono un inaccettabile male ogni forma di eutanasia e suicidio medicalmente assistito, anche quelle forme subdole (e per questo più facilmente spacciate come un bene per il paziente e un dovere per il medico e i congiunti) che passano attraverso la sospensione di idratazione e nutrizione, pur fisiologicamente appropriate per sostenete l’omeostasi corporea, e l’applicazione della sedazione finalizzata a provocare intenzionalmente la morte del malato. Contro ogni pratica eutanasica o di assistenza al suicidio, la Lettera ricorda il diritto e il dovere di sollevare la propria obiezione di coscienza, che come insegna la Gaudium et spes (16), nessun ordinamento democratico può negare senza fare violenza, al «sacrario dell’uomo».

Roberto Colombo – E’ sacerdote della diocesi ambrosiana dal 1989. Professore incaricato di Bioetica speciale presso la Pontificia Università Lateranense (Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, Città del Vaticano) e di Antropologia e bioetica presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose (Milano). Attualmente è responsabile del Laboratorio di Biologia Molecolare e Genetica Umana per lo Studio delle Malattie Ereditarie dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

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